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Una lettura Psicoanalitica di “Stalker” di Tarkowsky
Una lettura Psicoanalitica di “Stalker” di Tarkowsky
E come una stupenda metafora della ricerca interiore, ho rivisto un vecchio film (che non si può descrivere attraverso un genere, direi che è unico, rimasi molto stupita la prima volta che lo vidi diversi anni fa, pensai che riguardasse l’inconscio), l’ho rivisto con in mente il concetto di pulsione di verità. Stalker di Andrey Tarkowsky (1979), dove si muovono personaggi di un mondo onirico guidati da una pulsione (alla verità) e dalla fede laica, che non riguarda Dio, ma la speranza che il bene prevalga sul male[1].
Con tale medium (lo stalker, la guida) i due personaggi, professore/scienziato uno e scrittore l’altro[2], si confrontano (“dalla discussione nasce la verità”), come rappresentazioni di una polarità di inclinazioni dell’animo, di due diversi approcci alla ricerca, la scienza e il rigore da un lato e la creatività dall’altro. Personaggi senza nome perché “le cose se gli dai un nome perdono di significato”, dice ad un certo punto lo scrittore…e Bion in “Trasformazioni”.
Iniziano il loro viaggio denso di mistero addentrandosi nella “zona”, un’area vietata, inaccessibile, fuori dallo spazio e dal tempo, con al centro una stanza che ha il potere di esaudire i desideri più reconditi, i veri desideri, la verità di noi stessi. Per raggiungere la stanza la strada diretta non è la più corta, bisogna procedere “a cerchi”, senza avere fretta.
La guida non può entrare nella stanza, la sua funzione è un’altra.
Nell’avvicinarsi il paesaggio cambia continuamente, e nei personaggi emerge una natura diversa. Una zona in cui natura e tecnologia si sono scontrate lasciando residui bellici, dove “il futuro si è fuso col presente”. “Non è la zona che cambia, sono le nostre emozioni”, le passioni sono intense in un apparente immobilismo. Zone mutevoli, spesso umide, esplosive, oniriche, ricche di sensazioni, di deja vu, di ritorni concentrici, come una spirale, “è lo stesso posto, ma non è più lo stesso posto”, verso un centro-verità che non può essere scoperto.
Non vedremo la stanza perché i personaggi si fermano sulla soglia. La verità è inaccessibile, “il mistero non può essere svelato” chi ha voluto forzarne lo svelamento è morto.
Se la verità ultima è inconoscibile, essa è anche l’ignoto.
E si fermano sulla soglia non per il rifiuto dell’arroganza di chi crede di poter possedere la verità, ma per il timore che questa crea. La ricerca e la paura al contempo, che limita, come un bagliore assoluto, l’osservazione di aspetti di sé sconosciuti.
[1] Io penso che la fede laica riguardi questa speranza, Bion ne parla come la fede nell’esistenza di una verità e di una realtà ultime (Grotstein, Il settimo servitore).
[2] anche i personaggi che intraprendono il viaggio nella zona sono tre, la triade come organizzazione evolutiva, come in terapia dove il terzo elemento costruito in seduta da paziente e terapeuta costituisce un ingrediente indispensabile, un fattore evolutivo. Con sfumature diverse, penso al terzo intersoggettivo di Ogden, al campo analitico dei Baranger, alla metafora, al mito e al sogno di Bion.